domenica 2 agosto 2015

Alla ricerca di un segnale riconoscibile per un'enigma senza soluzione. Forse.

 
  
 
Finché mi sovrasta un cielo carico uniformemente di nuvole mi sento di vivere la mia condizione terrena in modo pieno. L’esperienza di vita già vissuta mi consente di riconoscere persino un senso al mio esistere. La stessa cosa mi succede quando il cielo è uniformemente azzurro nel sereno.
Questi cieli in fondo sono rassicuranti e li percepisco come una parte di me perché rendono tangibile e consapevole il  mio esistere attuale. Lo circoscrivono.
I cieli così fatti li sento miei, risuonano in me come strati amici che coprono, che avvolgono, che proteggono, che consolano.
 
 
Il dramma si consuma invece quando nel cielo si sovrappongono masse grandiose e stratiformi di nuvole che lasciano aperti dei varchi, dei buchi, da cui si intuisce o si intravvede un altro cielo.
Un cielo sconosciuto ed estraneo, imprevedibile. Un cielo lontano senza luogo, ai confini del visibile e del sensibile, un cielo che non mi appartiene. Un cielo ostile che crudelmente piove raggi verticali di luce che ammoniscono minacciosi.
Raggi di luce che con la loro maestosità spaventosa ridimensionano tutto il paesaggio del centro dove la mia esistenza s‘illudeva di vivere da protagonista una propria traiettoria .
Raggi che sottolineano la mia condizione di essere infinitesimale e insignificante e che mi lasciano disorientato con dentro una sensazione di nullità. Una sensazione di essere "insensato" in un vuoto senza bordi di contorno.

 
Quei buchi, che lasciano fluire un distillato di infinito, sono squarci d’inquietudine.
Se lo sguardo si avventurerà lì dentro, in quel profondo, sono consapevole che mi si presenterà prepotente ancora il mistero del mio esistere. Che poi non è il “mio” esistere ma il “nostro” esistere. E sono altrettanto consapevole che quei buchi alimenteranno l’eterna tragedia di un mistero che rimarrà irrisolto.
Allora succede che quando da una riva o da un promontorio mi si apre allo sguardo questo cielo strappato non so cosa devo focalizzare con il mio occhio sensibile: le rassicuranti nuvole che sono parte del mio esistere o l’inquietante buco che è varco stretto verso l’altro cielo a me profondamente estraneo?
So che se l’occhio si muove verso quella soglia sull’ignoto è inevitabile l’inizio di un viaggio doloroso.

 
Quello squarcio d’altra parte è un polo d’attrazione a cui l’occhio difficilmente può sfuggire.
Lo sguardo inizialmente si attarda sulle masse voluminose e variopinte delle nuvole. L’anima indaga le maestose figure mutanti e li assimila come figure note già vissute , a figure oramai familiari in una sorta di consolazione. Ma poi quella presenza luminosa si fa pretenziosa , è presenza magnetica e l’occhio inevitabilmente risale quei raggi fino ad infilarsi in quell' abisso inquietante per percorrerlo fino allo smarrimento.


E’ uno smarrimento già provato così tante volte con quel viaggio a salire , lungo quella luce verticale così tagliente e violenta. Ma nulla si può fare per evitare quel viaggio doloroso.
Il motore è la speranza vana di riuscire a percepire, in quel percorso ardito verso il limite della verità, un segnale riconoscibile.
E’ lo stesso smarrimento provato da bambino quando questo cielo mi sorprendeva nelle ore spensierate dei lunghi pomeriggi estivi assolati, passati disteso in solitudine dentro i campi di grano maturo già pronto per l’imminente mietitura.
Tutto attorno e sopra di me le spighe profumate sostenute dagli esili steli oscillavano lentamente al caldo vento estivo rilasciando un dolce profumo. Quella barriera dorata verso il mondo, fitta ma trasparente, la sentivo accogliente e protettiva come un grembo materno.
Io il ribelle, io il diverso lì in quell' isola trovavo la mia pace. Io mai fermo, alla ricerca fin da allora sempre di una consolazione, dentro quel rifugio lontano da tutti quietavo. Gli occhi rivolti al cielo azzurro si perdevano a fantasticare favole seguendo in controluce le forme mutanti delle nuvole bianche, in lento movimento là in alto oltre le fronde degli alberi.
 

Poi però ricordo anche lo sgomento quando colto di sorpresa lontano da casa,  prima di un temporale, improvvisamente il vento si alzava forte.
Le rondini saettavano basse a cercare un rifugio dentro un turbinio di foglie spezzate e petali portati dal bosco. Il cielo si richiudeva su se stesso velocemente con cumuli imponenti di nubi oscure cariche di pioggia che lasciavano aperto solo qualche varco da cui si intravvedeva quell' infinito lontano, in una luce abbagliante e minacciosa.
Rapidamente dentro di me tutto prendeva un’altra forma. L'ordine tranquillo delle cose note e amate si tramutava in disordine carico di una energia ignota e imprevedibile. Il pensiero svagato e calmo di prima, si smarriva nell’inquietudine.
Ma poi, mentre correvo affannosamente verso casa inseguito dal rombo lontano dei tuoni, col vento sopravveniva anche il profumo dolce del grano maturo a consolare.
Quel profumo mi giungeva come una promessa. Ci sarebbe stata la possibilità, ritornando un domani in quel rifugio o in un altro, di assaporare ancora quel gusto di serenità.

Iperipo
  

 
Come nel cielo si aprì un buco

Nessuno sapeva com'era accaduto, eppure c'era,
un buco profondo con orli strappati, frastagliati -
non potevi alzare gli occhi al cielo senza vederlo.

Non c'era modo di rattopparlo, di riempirlo
o attenuarlo, non c'era modo di sostenere il dolore causato dal
minimo sguardo in alto dove, nell'azzurro più terso,

il sole e il buco si contendevano l'attenzione.

Moniza Alvi


"Perché era questo che accadeva: noi eravamo immobili, mentre la torre di Belém, le colline della città, l'ampia foce del fiume, l'isoletta del faro, tutto quanto veniva risucchiato verso un solo punto, il tempo faceva qualcosa al mondo visibile che venne ridotto infine a un che di fugace e oblungo che si lasciava sempre più lentamente allungare.
Una lentezza che era velocità, tu lo sai meglio di chiunque altro perché devi abitare sempre in questo tempo di sogno, in cui il restringersi e l'allungarsi si annullano a vicenda come meglio credono. Scomparso, svanito era ormai l'ultimo sospiro della terra, e noi eravamo ancora lì immobili, solo la schiuma dietro la nave e la prima danza delle grandi onde negavano la stasi.
L'acqua dell'oceano appariva nera, si agitava, si gonfiava, si ritraeva in se stessa, cercava in continuazione di coprirsi con se stessa, liquide, lucenti lastre di metallo che si abbattevano senza suono, si fondevano, aprivano varchi l'una nell'altra e vi si svuotavano dentro, implacabile, infinito mutarsi nella stessa, sempre identica cosa.
Tutti quanti guardavano fissi il gioco delle onde, tutti quegli occhi che nei giorni seguenti avrei imparato a conoscere tanto bene parevano incantati dall'acqua.
Giorni, nel pronunciare questa parola ad alta voce mi rendo conto di quanto suoni vuota. Se tu mi chiedessi qual è la cosa più difficile, io ti risponderei dare addio alla misura. Senza, non sappiamo da che parte voltarci. La vita ci risulta troppo vuota, troppo aperta, abbiamo escogitato di tutto per poterci aggrappare, nomi, tempi, misure, aneddoti.
Dunque devi perdonarmi, non ho altro che le mie convenzioni e, dunque, continuo a dire come al solito giorni e ore, benché il nostro viaggio pareva non tener alcun conto del loro dispotico dominio.
I sioux non avevano un termine per indicare il tempo, ma io non sono arrivato a tanto, anche se imparo alla svelta.
A volte era tutta una notte senza fine, poi i giorni si trascinavano di nuovo come timidi momenti lungo l'orizzonte, quel tanto che bastava per tingere due volte in ogni sfumatura di rosso l'oceano e riconsegnarlo poi alla tenebra."
 
brano tratto da "La storia seguente" di Cees Nooteboom
 
 

 Noir Désir - Le Vent Nous Portera from Mustafa Vefa Kurt on Vimeo.

 


 

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